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Perché Papa Francesco parla della povertà anche in Brasile

Da oggi la Gmg di Rio entra nel vivo, con la messa di Papa Francesco al Santuario di Nostra Signora della Concezione di Aparecida, la visita all’ospedale São Francisco de Assis, realizzato con i fondi dell’8 per mille, e giovedì l’incontro con la comunità della favela di Varginha. Certo, ieri oltre 500 mila giovani hanno assistito sotto la pioggia all’apertura ufficiale della 28° Giornata Mondiale della Gioventù, alla messa sulla spiaggia di Copacabana, presieduta da Orani João Tempesta, arcivescovo di Rio de Janeiro, che nella sua omelia ha sostanzialmente riproposto i concetti chiave del papato bergogliano: la freschezza che garantisce una Chiesa giovane e viva, l’esigenza per tutti i fedeli di dirsi e farsi discepoli missionari, la “rivoluzione dell’amore” che porta Cristo.

Ma non c’è dubbio che l’attesa più grande è riservata ai gesti e alle parole di Francesco, che martedì è rimasto in sostanziale riposo (per la verità, raccontano dal Brasile, nella residenza di Sumaré numerosi sono stati gli incontri, anche con i suoi più stretti collaboratori sui tanti dossier che lo attendono al termine della missione verde-oro) e da mercoledì esordirà negli appuntamenti pubblici con chi più gli sta a cuore: i giovani e i poveri. E’ come se dal viaggio brasiliano l’ “opzione per la Chiesa povera”, enunciata dal Papa nel corso del suo incontro con i giornalisti pochi giorni dopo l’elezione al soglio di Pietro, trovasse finalmente una sua espressione concreta.

Fu proprio al termine del conclave che lo elesse 266° pontefice della Chiesa cattolica che a Jorge Mario Bergoglio divenne chiaro il senso della sua missione. Avvicinandolo prima che ricevesse il saluto degli altri porporati, il cardinale francescano Claudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo e suo amico di lungo corso, che gli sedeva accanto all’interno della Cappella Sistina, gli sussurrò – come ha raccontato il Papa stesso – “non dimenticarti dei poveri”, facendo scattare in lui anche la decisione di prendere il nome del frate di Assisi, che della povertà, spirituale oltre che materiale, è il “rappresentante” per eccellenza.

Il 28 marzo, per la messa in “Coena Domini” del giovedì santo, Francesco rese evidente cosa intendeva, per sé, per i vescovi e per la Chiesa tutta. Recandosi al carcere minorile di Casal del Marmo, alla periferia di Roma, praticò il rito della lavanda dei piedi a 12 giovani detenuti, secondo l’esempio evangelico. “Quello che è più in alto – disse Bergoglio – dev’essere al servizio degli altri. Lavare i piedi vuol dire che io sono al tuo servizio”. Il carrierismo, avrebbe ripetuto con forza di lì a qualche settimana, è una lebbra: quindi compito del cristiano, soprattutto di chi ha l’autorità, è di aiutare gli altri, perché il vero potere “ha il suo vertice luminoso sulla croce”. Un messaggio ancora più chiaro quando, il 18 maggio, rispondendo a una domanda nel corso della Veglia di Pentecoste con i movimenti ecclesiali e le associazioni laicali, ammonì i cristiani “teologi da salotto”, perché la Chiesa per essere tale “deve uscire da se stessa, verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano”. E ancora: “Dobbiamo andare all’incontro con tutti, soprattutto i poveri: non è più possibile che un barbone morto di freddo non sia una notizia, mentre uno scandalo sì”!

La visita lampo dell’8 luglio a Lampedusa, la “periferia” fisica dei migranti, è servita sostanzialmente a preparare il viaggio a Rio. La “globalizzazione dell’indifferenza”, – ha tuonato nell’isola siciliana il Papa – ci ha fatto perdere “il senso della responsabilità fraterna: siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada”.

E’ contro questo tipo di Chiesa che lavora Francesco, anche quando affronta i dossier spinosi sullo Ior e la riforma delle finanze vaticane. E a questo punto l’attesa per la “prima mondiale” di Aparecida non può che essere al massimo. Dall’assemblea del Celam riunita in quel santuario, nel 2007, uscì il documento sull’unità della Chiesa latinoamericana e l’evangelizzazione del “continente della speranza”, al quale il Pontefice tiene moltissimo, e che egli stesso già allora commentava con parole che oggi sono entrate a far parte del suo magistero: “per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce. Questo dice in fondo Aparecida. Questo è il cuore della missione”.

Il marxismo non c’entra nulla, ha spiegato il politologo argentino Marcelo Gullo, che Bergoglio lo conosce bene. Piuttosto, riecheggiano in Francesco le parole di Paolo VI: “il mondo oggi è più disposto a credere ai testimoni che ai maestri, e se dà ascolto a un maestro lo fa perché questo maestro è anche un testimone”. La nuova evangelizzazione richiede l’esempio: l’ “opzione per i poveri” sta tutta qui.


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